Testo e foto di: M. Cristofolini
Uno dei grandi problemi del Madagascar, ancora oggi, è il sistema dei trasporti. Se ne rese conto, già nel 1862, il re Ramada II. Egli aveva fin da allora una visione del mondo tutta particolare. Era stato a Parigi per lungo tempo ed aveva capito che un paese chiuso, senza infrastrutture e lontano dall’Europa non aveva possibilità di sviluppo. Si lanciò quindi in una serie di progetti nel tentativo di cambiare significativamente l’economia del Paese. Purtroppo non riuscì a realizzare i suoi sogni perchè restò sul trono solo 2 anni. Molti dei suoi progetti videro la luce parecchi anni dopo. Uno di questi fu la costruzione del canale Pangalanes, portato a termine dal Gen. Gallieni, militare francese dal pugno di ferro, che negli anni a cavallo tra l’800 e il 900 fece unire una serie di laghi, paludi ed estuari che si trovano all’interno della costa est del Madagascar creando così un canale navigabile lungo quasi 700 km. Questo canale separato dall’oceano Indiano da una striscia di sabbia si sviluppa perpendicolarmente a poche centinaia di metri dal mare. Fu un’opera grezza ma efficace e di straordinaria importanza per le comunicazioni del Paese che a quell’epoca erano pressochè inesistenti. Ramada II riuscì comunque in qualcosa che dura ancora ai nostri giorni. Tramite Napoleone III si rivolse ai carpentieri della Bretagna chiedendo loro di insegnare ai Vezo, pescatori locali della costa ovest, a costruire imbarcazioni a vela che avrebbero fatto da collegamento tra le città lungo tutta la parte di costa occidentale che si affaccia sul canale del Mozambico.
Per questo progetto la scelta cadde su un ingegnere, Ludovic Joachim Emanuel, che venne incaricato dallo stesso Napoleone a trasferirsi in Madagascar con i sui tre figli e suo fratello per trasmettere ai locali di Belo sur Mer l’arte dei maestri d’ascia Bretoni.
Joachim, che già viveva tra la Francia e l’isola di Reunion, accettò l’incarico e si trasferì a Belo sur Mer. I Vezo, un ramo del popolo Sakalava, che fino ad allora navigavano e pescavano con piccole piroghe a vela, si mostrarono molto attenti a queste nuove tecniche di costruzione che continuano ancora oggi ad essere un’importante risorsa nell’economia della costa là dove le strade sono praticamente inesistenti. Nel tempo i progetti di costruzione ovviamente andarono persi ma le tecniche di taglio e assemblaggio restarono nella tradizione dei Vezo, una tradizione che si tramanda oralmente di padre in figlio.
Lungo le spiagge tra Belo e Morondava si ha ancora la possibilità di vedere gli scheletri delle golette in costruzione. Barconi da 12 a 20 metri prendono forma sotto le abili mani dei carpentieri e sotto il vigile sguardo degli “stregoni” che incaricati dall’armatore sovrintendono tutte le fasi della costruzione, dalla progettazione al varo. Oggi la difficoltà di reperire i fondi è pari a quella per il reperimento del legname, le barche si costruiscono con piccoli anticipi versati da parte dell’armatore e gli stati di avanzamento lavori vanno con estrema lentezza. Trovare un palo, pezzo unico lungo 10 metri, per farne un solido albero maestro è un’impresa ardua. Nei periodi buoni, di queste imbarcazioni se ne costruiscono non più di una decina all’anno. Il legname viene acquistato dalle tribù dell’interno e viene trasportato sulla costa con carri trainati da zebù.
Di queste barche ne esistono di due tipi: i “boutres”, con un albero e armo a vela latina, leggere e maneggevoli e le “goelettes” a due alberi, pesanti e con grandi capacità di carico. Queste ultime sono barche a fondo piatto e trasportano fino a 80 tonnellate di merci di ogni tipo.
A causa del continuo aumento del prezzo del carburante (oltre 2 euro al litro al momento in cui scriviamo; più caro che in Europa) e le pessime condizioni delle piste che nella stagione delle piogge sono impraticabili, il trasporto via mare diventa il più economico oltre che indispensabile per il raggiungimento dei villaggi più isolati. Il costo via mare è un quarto del prezzo rispetto a quello via terra. Senza nessuna strumentazione, né carte o luci, senza bussola né motore, queste barche navigano a vela da Tuelar a Morondava a Maharanja, oltre 500 miglia nautiche, impiegando anche 10 giorni per la sola andata. I loro abilissimi comandanti si destreggiano tra maree e banchi di corallo, affidandosi esclusivamente alla loro esperienza. Questi conducono abilmente le loro imbarcazioni lungo la costa e dentro gli estuari dei fiumi o lagune costiere sia per le operazioni di carico e scarico che per ripararsi dal maltempo.
I passeggeri, quando ammessi e mai più di 8 o 10 per volta, trovano posto sul ponte dove dormono sotto dei teli cerati, consumano all’aperto i loro pasti frugali (nulla è fornito dalla nave eccetto l’acqua potabile) cucinando su un fuoco a legna allestito sul ponte con assi di legno e sabbia. I tre pasti al giorno dell’equipaggio consistono in una ciotola di riso scondito, a volte accompagnato dal pesce pescato durante le soste. Le barche sono spesso in pessime condizioni: alcune di queste hanno più di trent’anni di traffico sulle spalle, molte fanno acqua e durante i trasferimenti vengono svuotate a mano continuamente. Tale stato è dovuto più per mancanza di buon legname da riparazione che per mancanza di soldi. La deforestazione selvaggia ha raso al suolo quasi tutta l’isola-continente. Chiamata un tempo l’Isola Grande oggi è meglio conosciuta come l’Isola Rossa. Purtroppo pochi sanno che è diventata “rossa” a causa dell’erosione causata dalla spoliazione delle sue foreste che ne ha messo a nudo il terreno. Così, la terra rossa, si spacca e tinge i fiumi ad ogni acquazzone.